Prostituzione e tratta, una testimonianza diretta
Pubblichiamo di seguito un recente articolo di Altreconomia sulle vittime della tratta e sui riflessi che questo fenomeno ha avuto e continua ad avere sul territorio lecchese. Specialmente in tema di accoglienza e di qualità dell’accoglienza delle donne richiedenti asilo.
Il pezzo ha preso spunto dalla coraggiosa testimonianza di Silvana -responsabile di un centro per donne richiedenti asilo della provincia-, che abbiamo raccolto a fine aprile. È un ulteriore spunto di approfondimento e riflessione che succede all’iniziativa di marzo in compagnia della giornalista Ilaria Sesana.
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da altreconomia.it, 4 maggio 2016
Silvana è la responsabile di un centro accoglienza per donne richiedenti asilo della provincia di Lecco. Per motivi di sicurezza preferisce presentarsi con un nome di fantasia ed evitare altri dettagli sul luogo in cui lavora. Il “99% dei suoi ospiti” -racconta- è di nazionalità nigeriana. “Sono donne vittime di tratta, vendute al mercato e alla mafia della prostituzione dietro ricatti, violenze e soprusi”.
Il legame tra le domande di protezione e la tratta è crescente, come fotografato dai dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni -le donne nigeriane giunte in Italia sono state 433 nel 2013, 1.454 nel 2014 e oltre 5.600 nel 2015- e ben raccontato da Ilaria Sesana nel dicembre scorso su Altreconomia.
“Individuare le vittime è relativamente semplice -spiega Silvana- perché chi conosce questo mercato sa che la Nigeria è una spia rossa accesa; da lì viene importata la maggior parte delle prostitute che ci sono in Lombardia. A Milano, nel 2013, sono state ‘contattate’ 413 donne nigeriane che lavoravano nel mercato della prostituzione. Nel 2014 il numero è salito a 1.434, nel 2015 a 4.937. Cito Caritas Ambrosiana che si occupa fin dagli anni 80 del fenomeno in Lombardia”.
Tutto ha inizio in Nigeria. “Le persone più esposte sono quelle meno alfabetizzate -racconta Silvana-. Le storie che abbiamo raccolto in questi anni evidenziano una pressione molto forte da parte della famiglia, che vede nei frutti del viaggio in Italia una sorta di fonte di sostentamento. Secondo le stime, l’opzione del viaggio in Europa sarebbe stata prospettata a una donna nigeriana ogni tre. Sono gli stessi familiari, dunque, che le mettono in contatto con la persona alla prima casella del percorso. La catena è lunga e il costo, misurato inizialmente in valuta nigeriana, continua a salire, andando ad alimentare un debito a carico della vittima che giunge fino a 20mila o 50mila euro”.
Il grado di consapevolezza delle vittime che Silvana ha incontrato nella sua esperienza è scarso. “Buona parte dei passaggi avviene all’insaputa dell’interessata, che è chiamata comunque a garantire quel viaggio. La garanzia del viaggio dà luogo al rito vodoo, quello che loro chiamano ‘juju’. Prendono capelli dalla testa, dall’ascella, peli pubici o mutande. E questa pratica assicura il debito: se il debito non fosse pagato, viene detto alla vittima, diventerà pazza, perderà la sua famiglia, potrà morire o le potrà succedere quel che gli aguzzini desiderano”.
L’analfabetismo induce le vittime a convincersi che l’esposizione sia reale, rendendole succubi. Silvana riporta una storia drammatica: “In diversi casi queste pratiche sono state appoggiate dai pastori delle chiese cristiane, non cattoliche, che talvolta hanno messo in contatto le vittime con i loro mercanti. Lo posso affermare perché una delle ragazze che stiamo ‘gestendo’ è stata contattata proprio da un pastore. Non è stata sottoposta al rito vodoo e non ha mai capito il senso di certe frasi: ‘Hai tutte le caratteristiche richieste per andare in Europa’. Poi è partita con un numero telefonico, quello della madame. È sbarcata in Sicilia, dopodiché è giunta a Lecco nel 2015. L’hanno sistemata a Malgrate, un Comune della provincia. Lì ha contattato la madame che l’ha rassicurata e fatta letteralmente prelevare da una persona che l’ha condotta fino a Genova. Soltanto a quel punto ha compreso il tipo di ‘lavoro’ che avrebbe dovuto svolgere: è stata picchiata, maltrattata, gettata da una scala. Alla fine si è prostituita fino al giorno in cui ha deciso di lasciare tutto. È tornata da sola a Lecco, e a novembre dello scorso anno ha denunciato tutto. Il suo gesto le ha consentito di riacquisire le misure di accoglienza che le erano state revocate a causa della prima fuga a Genova”.
In questi mesi, Silvana ha lavorato a stretto contatto con la Cooperativa lotta contro l’emarginazione di Sesto San Giovanni (MI), che può contare su un programma finanziato dal Dipartimento per le Pari opportunità per vittime di tratta. Con la onlus milanese (“A Lecco è impossibile perché non c’è nulla di avviato”) ha approfondito la tratta e rafforzato le proprie competenze.
“Tutte le donne che abbiamo in gestione al centro si sono viste bocciare la domanda di protezione perché ogni storia è sempre stata ritenuta poco credibile -ricorda l’operatrice-. Ma il ‘no’ della commissione territoriale competente di Milano era fondato: a tutte quelle storie mancava il vero pezzo. È il caso di una ragazza alla quale alla fine è stata disposta la protezione: era andata in commissione a raccontare di una fuga dovuta alle minacce occorse al fratello. I fatti erano corretti ma la storia era orfana di un passaggio. In realtà era stata contattata da una madame che aveva lavorato in un bordello in Libia, la cosiddetta ‘connection house’, e da lì era stata venduta in Italia. Quando è stato presentato il ricorso in primo grado le abbiamo fatto capire l’importanza della verità. Lavorando con la cooperativa di Sesto San Giovanni siamo riusciti a farle affrontare la vera storia, inoltrando così il fascicolo al giudice. Quest’ultimo ha valutato e riconosciuto il permesso di soggiorno per cinque anni”.
Un’altra donna ospite del centro di Silvana ha raccontato per due anni alle autorità italiane e agli operatori che i parrocchiani del villaggio le avevano prestato dei soldi per avviare una piccola attività. E che aveva utilizzato quei soldi per viaggiare in Italia. “Quanto avrebbe potuto raccogliere una chiesa sperduta in Nigeria?”, si è chiesta Silvana. “Quando le abbiamo fatto capire che sapevamo, è scoppiata in lacrime, ammettendo che il pastore l’aveva portata da una signora molto ricca del villaggio, che le aveva promesso aiuti sinceri. In realtà era all’inizio dello ‘schema fisso’ della tratta, pronta ad essere consegnata al ‘trolley’, cioè a colui che sposta la persona fino alla Libia”.
Al centro lecchese hanno incontrato casi di “doppie vendite”, prima verso la Libia e poi verso l’Italia. E solo una delle sei donne di cui Silvana e i colleghi hanno curato le domande di protezione aveva come destinazione finale la Germania.
“Il problema più grande è mantenere la promessa di protezione che viene naturale fare a chi sta aprendo una pagina così dolorosa della propria vita -spiega Silvana-. Quella rassicurazione (‘ti proteggerò dalla madame e dalla mafia’) devi poterla onorare, ed è fondamentale che gli operatori che lavorano con le donne nigeriane sappiano di questo fenomeno e siano preparati”. Silvana pensa all’impreparazione diffusa che ha incontrato. La provincia lecchese non è un’eccezione visto che, a livello nazionale, il “Piano d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento” è stato approvato dal Consiglio dei ministri soltanto nel febbraio 2016, “con molto ritardo rispetto a quanto previsto dal D.Lgs. 24/14 di recepimento della Direttiva europea sulla tratta 2011/36/UE”, come ha segnalato l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.
Il “Piano nazionale” è un passo avanti che non può bastare: nelle ultime settimane, una donna del centro di Silvana che aveva denunciato la sua madame ha ricevuto minacce. “Sappiamo dove sei, verremo lì, ti faremo a pezzi”, le avrebbero riferito al telefono. Su richiesta del centro, la Prefettura lecchese dovrebbe disporre di qui a breve un regime particolare di protezione per il centro.