Per non dimenticare
Era da poco giorno, e nella luce dell’alba Aureliano Buendìa, era seduto in cucina, a bere il suo solito caffè amaro. L’espressione era sempre la solita, uno sguardo triste, un’aria malinconica, vecchia e ingiallita, come la sua pelle, come il suoi baffi. Era stanco, stanco di pensare a Remedios e alle sue bambole, stanco di pensare alla guerra, alle trentadue sollevazioni armate che aveva promosso, stanco di pensare alle donne che gli allietavano le notti nell’accampamento, stanco di ricordare, come impronte vivide nella memoria, i quattordici attentati cui era sfuggito, stanco di vedere il compagno Gerinaldo Marquez immobile su quel letto di morte, stanco degli anniversari che segnavano il ricordo dei patti di Neerlandia, con cui aveva concluso la guerra, stanco di fabbricare pesciolini d’oro per poi colarli e ricominciare il procedimento da capo. Era stanco di vivere in quella Macondo conservatrice senza futuro e con i Gringos alle porte. Aspettava solo la morte, aspettava solo di spegnersi da rivoluzionario, da partigiano. La palma dove il padre morì non aspettava altro che lui, per accogliere la sua solitudine.
Il compito di continuare a combattere spettava ad altri. E così il testimone fu passato all’Italia. Faceva freddo sulle colline vicino Modena, era il finire dell’autunno del 1944 e un gruppo di partigiani vagava in cerca di un comando di riferimento. Il bosco era secco e sterile, uno in fila all’altro si muovevano silenziosi, senza troppo dare nell’occhio. Sul sentiero però, in direzione opposta viaggiava un vecchietto, sciancato, che si reggeva ad un bastone. Quando fu a tiro di voce, il primo partigiano della fila volse al poveretto una domanda: “Sa dove possiamo trovare dei partigiani nella zona?”. Il vecchietto, non alzò il volto, si strinse tra le spalle e rispose: “Partigiani? Qui non se ne vedono da un bel pezzo”. Il gruppo diede passo e il signore, accompagnato dal bastone lo passò.
L’ultimo della fila, era solo un ragazzo, aveva 18 anni e non fu così convinto nel vedere un uomo di quell’età passeggiare in zone di guerra. Così contò fino al dieci e poi si voltò, il signore, non camminava più reggendosi al bastone, anzi, la sua andatura era aumentata. Il ragazzo, imbracciato il fucile, in quattro passi ben lanciati gli fu addosso. In realtà sotto le vesti di un comune vecchio c’era una spia, uno tosto, uno che aveva cantato per barattare la sua vita con quella di molti partigiani. Preso e fatto prigioniero, ed una volta trovato il comando, fu processato. La sentenza era la pena di morte. Il ragazzo fu incaricato di far parte del plotone d’esecuzione, non se la sentì, ma partecipò da terzo, solamente con lo sguardo. Al “fuoco” dei fucili, la spia se l’era già data a gambe, non lo ripresero più, l’inverno era alle porte come lo erano anche le forze alleate.
Venne novembre a Fossoli (Carpi), gli internati al campo di concentramento erano pronti, stipati in tre treni che partivano alla volta di Bolzano. Restare troppo vicino alla linea gotica, sotto i continui bombardamenti era pericoloso per i Nazi-fascisti, l’idea migliore era quella di “migrare” prima a Bolzano, per poi smistare gli internati nei vari Campi di Auschwitz Dachau Mauthausen.
I prigionieri, seminudi sul treno, stavano ripercorrendo con la memoria i fatti dell’estate.
Fossoli a Luglio era terribile, le baracche sudavano, imbevute di caldo e i prigionieri erano in esubero.
La sera dell’11, l’appello non fu come al solito numerale, i repubblichini e le SS chiamarono per nome settantun persone. “Se chiamano il tuo nome, stai fermo, ci vado io al tuo posto” Diceva un padre all’orecchio di suo figlio. Né l’uno ne l’altro furono chiamati. Ad essere chiamati e spuntati furono invece, gli ufficiali dell’esercito regio che l’8 settembre avevano abbandonato le armi, i partigiani catturati e i prigionieri politici più fastidiosi. Tutti i settantun furono condotti ad una baracca del campo, lì dentro, furono letti i capi d’accusa. Pochi giorni prima a Genova, un nucleo di partigiani aveva assaltato un gruppo di nazi-fascisti. Per qualche schifosa congettura tutti i presenti furono condannati a morte. Il giorno prima, infatti, davanti al poligono di tiro degli internati ebrei, avevano scavato una fossa. Ma settantuno non era un numero molto congeniale ai gerarchi così, lo resero più quadrato. Settanta, un prigioniero fu ricondotto alla sua baracca. Nella notte, uno di questi settanta si nascose nel campo di Fossoli. Alla mattina non lo trovarono, allora i ragazzi di Salò e i tedeschi, divisero i sesantanove in tre gruppi, e preso il primo lo condussero alla fossa comune davanti al poligono di tiro. Li fecero mettere in ginocchio e ad ognuno sferravano un colpo alla nuca e poi lo gettavano con un calcio all’interno del buco. Nel secondo gruppo due condannati riuscirono a scappare. La conta definitiva fu di sesantasette prigionieri condannati per reati che non avevano commesso, brutalmente uccisi in modo vile. Quattro erano della città medaglia d’argento alla resistenza, Lecco.
Durante l’esecuzione, l’arcivescovo di Carpi cercò di interrompere gli omicidi. Fu minacciato e allontanato. Il giorno dopo, organizzò i funerali, per le vittime morte senza motivo. Tutto il paese sfilò davanti alle mura del cimitero cantando la canzone: “Vento, vento, portaci via!”. La notte apparse sulle stesse mura una scritta di catrame alta un metro. La scritta recitava così: “Vento, vento, porta il Duce qua dentro”. Intanto, in centro città, sul castello, appariva la seguente scritta: “O con noi o contro di noi. Antifascisti sempre”.
Ieri, domenica 13 luglio 2008, si celebrava il 64esimo anniversario dell’eccidio di Fossoli, a Carpi, proprio davanti al poligono di tiro. L’ANPI di Lecco, ha mandato una delegazione a rendere omaggio ai sesantasette caduti.
Tra le tante frasi, che mi sono balzate agli occhi, durante la visita pomeridiana, al museo della resistenza di Carpi, una in particolare mi ha trasmesso, la forza per continuare ad alzare la testa, per non piegarsi mai, soprattutto ora che il rigurgito fascistoide sembra essere un fiume in piena. La frase recitava queste parole: “Cara, cerca il senso della vita insieme ai nostri figli nella lotta”.
Per non dimenticare, Vanoli Daniele, partigiano dalla nascita.
ho i brividi vano.
bravissimo