Scommessa civile

Da L’Unità del 29 maggio 2010. Di Goffredo Fofi

È l’ora dell’impazienza, speriamo. Diceva Camus nell’Uomo in rivolta che è «con la perdita della pazienza (…) che comincia un movimento che può estendersi a tutto ciò che veniva precedentemente accettato». Ribadiva don Milani nella famosa Lettera ai cappellani militari sull’obiezione di coscienza, che i soldati «l’obiezione l’han conosciuta troppo poco, l’obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, anche troppo». I soldati, i civili, i giornalisti… Questa era la legge, questi erano gli ordini, io non ho fatto che obbedire, assecondare, tacere: così si sono giustificati gli aguzzini del Terzo Reich e continuano a giustificarsi in tanti, nel mondo di oggi, trovando le mille scuse per non ascoltare la propria coscienza.

L’obbedienza non è più una virtù, insisteva il prete di Barbiana, sapendo bene che lo era stata e che avrebbe potuto tornare a esser tale, se intesa come obbedienza a una morale di cui si riconosce il valore, anche quando si incarna in una autorità e perfino in un gerarchia. Ma in questa società? Nella deriva del concetto stesso di responsabilità pubblica e di responsabilità privata nei confronti della collettività? Quanti possono dire di obbedire oggi a dei principi morali radicali – in una società che ha finito per sostituire la chiacchiera alla concretezza dell’azione? Gli esempi di disobbedienza civile nell’Italia berlusconiana sono rarissimi, quasi inesistenti e tante invece le scappatoie attraverso le quali il privato cittadino giustifica e accetta lo stato delle cose esistente, anche se magari gli fanno schifo. I maestri della disobbedienza civile, che è la versione morale della disobbedienza, i Thoreau Gandhi Capitini, hanno affermato che se una legge ci sembra ingiusta si ha il dovere di rifiutarla, di non accettarla, di disobbedirvi. Però non nascostamente o con la violenza, perché, insisteva Gandhi sulla scia di Thoreau, se una legge «è contemplata nei codici», i funzionari dello Stato devono farla applicare, ma se la mia coscienza mi dice che essa è ingiusta, «io devo resistere a essa in modo nonviolento» e si tratta allora di «violare la legge e di sottomettersi pacificamente all’arresto e all’imprigionamento». Disobbedire insomma non è un gioco, è un rischio. È la messa in campo di un principio di responsabilità dettato dalla mia coscienza e dalle mie persuasioni: per coerenza con i miei principi ma allo stesso tempo per compiere il mio dovere nei confronti della collettività, del suo presente e del suo futuro. (Consiglio a chi vuole avere un buon quadro delle ragioni, dei problemi e dei metodi della disobbedienza civile, il saggio di Thoreau con questo titolo edito dalla Bur e l’antologia delle Edizioni dell’asino Ribellarsi è giusto.)

La disobbedienza praticata dagli italiani oggi è raramente violenta, ma non è mai civile: cerchiamo astutamente di schivare le leggi, non le rispettiamo anche perché vediamo che a non rispettarle c’è in prima fila tutta la nostra classe dirigente, con gli eletti dal popolo, gli stessi funzionari dello Stato e perfino tanti magistrati. E allora: se tutti sono furbi e ladri (ma domani potrebbe anche essere: se tutti sono assassini o si fanno complici degli assassini) perché solo io non dovrei rubare?

Qua nessuno è fesso, si diceva in quella specie di capitale dei fessi che era ed è tornata a essere Napoli. È facile sentirsi nel giusto solo perché tutti sono nel torto, è facile gridare e denunciare e poi non far niente. È anche facile, per esempio nel caso di una legge disgustosa che imbavaglia l’informazione, chiedere una libertà alla quale non corrisponde una responsabilità, obiettare a una legge ingiusta ma guardarsi dall’obiettare ai diktat della pubblicità, delle banche, della proprietà dei giornali, dei suoi immediati rappresentanti i direttori.

La disobbedienza – e intendo chiaramente la disobbedienza civile – è una virtù delicata e che contempla molti rischi. Ma se non è questo il momento per affrontarli, allora quando? Le occasioni sono mille, e le risposte potrebbero essere tante, di singoli, di gruppi e perfino, nel caso dei giornalisti, di parti consistenti di una corporazione professionale che conta sempre meno perché si è lasciata condizionare dai poteri che hanno in mano i giornali e le tv, e insomma da chi paga. Per cominciare, si tratterebbe di dire no a questa legge scrivendo e dicendo ciò che una legge sommamente ingiusta non vuole che si dica, facendo quello che essa vieta di fare. Ma dovrebbe essere appena il primo passo, doveroso e rischioso, in un settore della società che non è certamente dei più limpidi. La disobbedienza deve diffondersi ad altri campi, e dev’essere, se vuol contribuire a modificare qualcosa, disobbedienza civile, sfida e scommessa civile a partire dal bisogno di pulizia, di onestà, di giustizia, di bellezza che è avvertito coscientemente da pochi ma forse, incoscientemente, da tanti, attraverso l’esempio e attraverso la lotta.

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