Costituzione materiale

Le sorti del Governo Berlusconi sono nelle mani di Tremonti, Bossi e dello stesso Premier. Fini e Casini recitano al meglio la parte dei determinati e determinanti, sapendo bene che tali non sono. Presso i cortigiani del Presidente del Consiglio si è fatta largo la tesi della “costituzione materiale” contrapposta alla “costutizione formale”, quella di carta (straccia, per i giuristi della maggioranza). Proprio ieri mattina abbiamo dato spazio all’analisi di Michele Ainis dedicata all’Articolo 88 della Costituzione. I berlusconiani, profondi conoscitori della Carta (“Credo che ogni parlamentare debba rispettare il mandato ricevuto”, Michele Vittoria Brambilla sul Corriere della Sera di quest’oggi, pag. 5), temono che Napolitano osi comportarsi come Scalfaro nel ’94, quando fu Bossi a sgambettare “Cesare”. Sciogliere le camere e sondare la strada per la formazione di governi alternativi a quello capitolato, com’è nelle facoltà del Presidente della Repubblica, significa calpestare la “volontà popolare”. Chiunque s’azzardi ad applicare parte della Costituzione, qualora vi siano le condizioni necessarie, è un “eversivo”, “traditore”, “trafficone”. La “costituzione materiale” (cioè la loro) vince sempre sulla “costituzione cartacea” (cioè quella “filosovietica” e decrepita).

Le reazioni sono note: chi “difende” Napolitano (o meglio: la Costituzione) e chi spara a pallettoni carichi di peronismo. E’ sempre stato così? Gli odierni difensori delle prerogative del Capo dello Stato hanno la credibilità per portare avanti questa battaglia sacrosanta? Piero Fassino (e quindi Massimo D’Alema, e quindi tre quarti del Partito Democratico) no.

Il 6 maggio del 2006, infatti, il Foglio di Giuliano Ferrara dava eco alle parole dell’allora segretario dei Ds, schierato senza se e senza ma a favore della candidatura di Massimo D’Alema al Quirinale. Riportiamo fedelmente:

“Non siamo una Repubblica presidenziale, né lo dobbiamo diventare. Ma è essenziale che il prossimo presidente svolga un ruolo di garanzia e di coesione che contribuisca ad un clima nuovo e ad aprire una nuova stagione nella vita delle istituzioni della Repubblica”. Fassino indica quattro punti fondamentali che riassumono queste sue intenzioni e le collegano al nome di D’Alema. Primo: “L’assicurazione che se il governo di Prodi dovesse entrare in crisi si tornerà a votare, in base al principio tipico delle democrazie dell’alternanza per cui la legittimità di una maggioranza e di un governo viene dal voto dei cittadini“.

“Principio tipico”, “democrazie dell’alternanza”, “voto dei cittadini”? Simili strafalcioni culturali hanno permesso in questi ultimi giorni a Fabrizio Cicchitto, Pdl, di far (giustamente) la voce grossa. “Ma come? Nel 2006 valeva questo “principio tipico” e quattro anni dopo no?”. Un oppositore (politico e culturale) degno di questo nome dovrebbe rispondere seccamente: “non valeva allora e non vale certamente oggi”. I leader democratici, contando sulla smemoratezza e la disperazione del proprio elettorato, dal basso della propria faccia di bronzo, fanno un passaggio in meno: se ne fregano. Evviva l’Alternativa!

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